Padre Maksym Ryabukha, 41 anni ma ne dimostra di meno, è l’ispiratore del nostro viaggio in Ucraina in questi giorni. Dopo averci descritto la situazione dei suoi giovani dell’oratorio e della chiesa di Maria Ausiliatrice a Kiev, al telefono ha lanciato un invito come spesso accade quando si dialoga con amici: “Quando venite a trovarci?”. Generalmente sono chiamate senza scadenza, parole di cortesia che significano: “Mi ha fatto piacere sentirvi, sarebbe bello conoscerci di persona. Chissà quando sarà possibile…”. L’invito di padre Maksym è stato però capace di chiedere una risposta a breve grazie a qualcosa di impalpabile che accompagnava quelle telefonate di fine gennaio. Non si trattava di uno scambio di informazioni distaccato: lui con i suoi connazionali è coinvolto da otto anni in una guerra a fasi alterne e su molti fronti. Da parte nostra siamo divenuti interlocutori di un cittadino dell’Ucraina, di un missionario in una città sotto bombardamenti, di un educatore di ragazzi e ragazze che nell’arco di una settimana si sarebbero trovati tagliati fuori dal gioco del mondo a causa di un pericolosissimo azzardo fra le nazioni. A Missioni Don Bosco abbiamo cercato di capire se quell’invito fosse un auspicio vago o un urgente appello alla vicinanza anche fisica: abbiamo concluso che era quest’ultimo.
È stato toccante vedere nel volger di pochi giorni questo salesiano immerso nella sua azione con i giovani di cui avevamo visto poche fotografie e immaginato molto lo stato d’animo. Ogni sera da un anno a questa parte (solamente con una pausa estiva) si raccolgono per pregare per la pace nel loro Paese, sotto lo sguardo di Maria Ausiliatrice.
Quella di p. Maksym è una missione a tutti gli effetti: segna la presenza salesiana in una città dove 1 abitante su 5 è nato dopo il crollo del Muro di Berlino e gli altri non hanno potuto mai praticare liberamente la loro spiritualità. L’indifferenza e più ancora l’avversità dello Stato alla religione era infatti la dottrina da diffondere. La chiesa con-cattedrale, assegnata dopo il 1989 ai latino-cattolici, era stata la sede del locale Museo dell’ateismo.
I salesiani tornarono in Ucraina nel 2005 dopo che la prima presenza, risalente ai tempi del beato Filippo Rinaldi terzo successore di Don Bosco, era stata cancellata dalla sovietizzazione del Paese. Venne ufficialmente avviata la Delegazione “Maria Ausiliatrice” di rito bizantino-ucraino con una cerimonia a Leopoli presieduta dal vescovo mons. Igor Vozniak in rappresentanza di Sua Beatitudine Liubomyr cardinale Husar. Era il 15 agosto e in quella specialissima occasione due giovani emisero la loro professione perpetua: erano Ivan Mazurkevych e il “nostro” Maksym Riabukha. Dopo vari incarichi, è a quest’ultimo che è stato affidato il compito di aprire a Kiev la prima casa salesiana.
La struttura è una villa incompiuta appartenuta a una famiglia Rom, ha la forma di un cubo al quale è stata aggiunta una piccola cupola. I Figli di Don Bosco l’hanno rilevata e la stanno trasformando in un centro di accoglienza (che in parte la nostra delegazione ha potuto già sperimentare) oltre che di preghiera. Intorno c’è terreno per un paio di campi da pallavolo/basket e giochi per i piccoli, ma i lavori non sono ancora iniziati a causa dell’allerta generale che blocca la realizzazione di questo e molti altri sogni. Siamo in una delle periferie di Kiev. Poca gente per strada, freddo e nevischio tengono chiusi in casa. Una scuola pubblica nell’isolato a fianco è aperta anche di domenica ma tuttavia è silenziosa. Padre Maskym che ha avviato buoni rapporti con la direttrice ci accompagna a visitarla di mattino presto.
Alle 11 torniamo a Casa Maria Ausiliatrice. Nella chiesetta al primo piano troviamo radunati più di cinquanta giovanissimi (ragazze soprattutto), molte coppie giovani e qualche adulto. Con una lunga preghiera cantata incoraggiata da suor Jeroteja Soroka delle Ancelle di Maria Immacolata, inizia la liturgia greco-cattolica presieduta da p. Maksym. Altri fedeli arrivano alla spicciolata, molti provengono da lontano – e lontano qui significa ore di spostamento in auto, in metropolitana (la stazione è vicina) o in tram (la linea corre sulla strada a fianco). Inni, letture, turibolo sonante per le ripetute benedizioni dell’ambone, dell’altare, delle icone, dei presenti. Non c’è l’incenso, ufficialmente perché qualcuno è allergico alle sue fragranze, ma forse non siamo lontani dal vero a pensare che quelle miscele aromatiche sono merce rara in questo momento, costosa per una comunità nascente. I chierichetti escono ed entrano dalla sacrestia portando i ceri e servendo il celebrante. Veniamo citati anche noi, gli “amici venuti dall’Italia, dalla città di Don Bosco” e questo ci gratifica ma ci carica ancor più di responsabilità.
Alla conclusione del rito, i saluti e le fotografie ricordo con Missioni Don Bosco e i giornalisti, poi la discesa al piano terra. All’ingresso della struttura un calcio-balilla e un accumulo di materiali da riciclare sono il segno inequivocabile che siamo nell’embrione di un oratorio. Padre Maksym diventa “Max” per tutti e ci fa entrare nel salone con i tavoli che già esibiscono una torta di cioccolato e con tante sedie pronte ad accogliere chi si ferma per lo spuntino. A dirigere il traffico di cibo la mamma del salesiano, arrivata il giorno precedente per prepararsi ad accogliere i ragazzi come faceva Mamma Margherita: qui si chiama Iryna.
Tutti chiacchierano, seduti e in piedi. C’è una cooperatrice salesiana con i suoi tre figli; arriva il marito che lavora alle basi aeree militari, nessuna novità dal fronte. Intervistiamo qualcuno: molti sanno l’inglese, ma la timidezza li frena; alcuni parlano l’italiano e trovano una bella occasione per mettersi alla prova. Confermano la loro speranza che Dio tocchi il cuore dei responsabili delle nazioni perché abbiano la volontà di costruire la pace. Con i genitori che non mostrano più di 25 anni ci sono bambini piccolissimi: guardare il loro viso basterebbe a fermare le armi se solo si riuscisse a farlo vedere ai potenti della Terra.