Siamo solo noi: tra Lomè, Niamey, Agadesh, Parigi e Torino

Aeroporto di Lomé, Togo. Sono in attesa dell’imbarco su Air France per Niamey e quindi Parigi, con arrivo a Torino domattina. Era da un bel po’ di mesi che non respiravo più aria d’Africa. Questa è stata una tappa rapida, di meno di una settimana, ma sufficiente a ravvivare tante cose: sapori, profumi, incontri, suoni, e soprattutto volti. Non so se sto adesso tornando a casa o lasciando casa per tornare in Europa. 

Va bene così, qualunque sia la direzione di marcia. Stamattina nella preghiera del breviario c’era un testo tra i più belli delle pagine che i primi secoli di cristianesimo ci hanno tramandato: la lettera a Diogneto. Ci ricorda che i cristiani (solo quelli di allora o anche noi 18 secoli dopo?) hanno la loro casa dappertutto, mescolandosi con la gente e la vita di qualunque paese e città; ma la loro vera patria è sempre altrove e mai da qualche parte su questa terra…

Sentirsi a casa dappertutto è una delle prime capacità a cui si allena chi vuole seguire la via tracciata da San Giovanni Bosco. Sono venuto qui per incontrare una comunità con 59 giovani salesiani, tutti africani, e lo si vede subito, come si vede ancora più in fretta che io vengo da un altro continente. Ma incontrandoli uno per uno si vede che l’Africa da cui provengono si chiama Senegal, Mali, Costa d’Avorio, Burkina Faso, Togo, Benin, Chad, Cameroon, Congo Brazzaville, Congo Kinshasa, Rwanda… e si deve aggiungere la Spagna, l’Argentina, la Polonia, la Nigeria e anche la mia piccola bandierina italiana se si conta anche chi li accompagna.

Quando l’internazionalità non è una cosa da teleschermo in occasione di Eurovision, ma è il volto che incontri continuamente, la voce che ascolti, il vicino di tavola… poco per volta cambia la visione del mondo e della vita. La casa comune non è più solo un richiamo ecologico: diventa l’habitat dove la vita si dispiega con una ricchezza di toni ed espressioni che vale più di qualunque apprendimento scolastico sulla geografia o percezione digitale mediata da qualche schermo.

Papa Francesco lo ha detto in tutti i modi possibili e lo ha fissato in modo forte in una delle sue lettere: FRATELLI TUTTI. Non è un dovere. È anzitutto radicamento nella unica realtà che esiste. Di fatto siamo così e solo così, in questo immenso universo. Se ci manca questa sintonia umana la nostra evoluzione si è fermata indietro di qualche secolo o migliaio di anni: possiamo viaggiare su una Tesla autopilotata dalla intelligenza artificiale ma dentro l’abitacolo c’è il rischio di avere un homo sapiens che è appena uscito dalla sua caverna.

Il multi etnico, culturale, linguistico, religioso… che sempre più frequentemente e rapidamente si travasa tra paralleli e meridiani, con le immense e rapidissime trasformazioni che segnano i cambi generazionali sia in Afghanistan che in Zimbawe (il primo e l’ultimo dell’elenco di 208 stati del mondo) prima che essere un problema sociale, economico, di sicurezza, integrazione… è una evidenza innegabile di CHI NOI UMANI siamo. Nessuno è spuntato dal nulla. Tutti noi che camminano e respiriamo oggi sul pianeta terra siamo il vagito di un parto che ha miliardi di anni di gravidanza. E nessuno potrebbe esistere senza un incessante intreccio di generazioni e di storie di popoli, con il carico immenso di tragedie che il loro evolversi ha portato con sé.

I miei 59 amici che lascio qui a Lomé sono un fascio di energie formidabili. Tutti sotto i 30 anni. Tutti han promesso di dare fino all’ultimo respiro per essere quello che Don Bosco è stato nella Torino di tanti anni fa; esserlo adesso per i tantissimi ragazzi e giovani di questo continente, il più giovane di tutti, qui, nell’Africa occidentale, la parte più popolosa del continente nero.

Fra qualche ora farò scalo a Niamey, capitale del Niger, ora parte della nostra neonata ispettoria salesiana ANN: Africa Nigeria – Niger. É un paese tra i più giovani del mondo come media d’età, ed è anche tra i più poveri, superato solo in negativo dalla Somalia. I cattolici solo lo 0,3% e c’è grande attesa da parte dei due vescovi del paese perché Don Bosco arrivi anche lì: il sogno che già qui i miei amici condividevano in questi giorni si chiama Agadez. È la città che forse più di ogni altra al mondo vive la tratta di essere umani – meglio dire: vive della tratta. È lì che si concentra il più della migrazione subsahariana di chi poi parte e tenta la via del deserto, dei lager libici, dei barconi… C’è un mondo di giovani più inter che mai (cultura, lingua, etnia, povertà di ogni fatta) che ha bisogno di qualcuno che veda nei loro occhi non più e non solo un problema, ma il potenziale che c’è dentro ad ogni vita, da sempre e per sempre. Qualcuno che creda che la nostra e la loro patria è sempre oltre e immensamente più grande di qualunque recinto o passaporto, deserto o mare.

Chi troverà i mezzi? Nostro padre Don Bosco era un professionista di questo tipo di rischio: è sempre partito senza i mezzi. Uno dei suoi detti diventati proverbiali tra chi è parte della sua famiglia: “L’ottimo è nemico del bene”. Se aspetti che tutto sia organizzato a puntino per fare anche solo quel primo piccolo passo che saresti in grado di fare per il bene tuo e di tuo fratello finisci col restare incollato alla tua piastrella, senza né bene, né ottimo, né per te, né per nessun altro. Sono contento di questa ricarica di umanità che questi pochi giorni mi han regalato. Domani sarà un po’ più pallido e meno variopinto e giovane il panorama umano che incontrerò a Caselle e per le strade di Torino: ma non è certo meno ricco di umanità, di noi, di una storia e di futuro immensamente più grandi di quello che possiamo percepire.

Don Silvio Roggia

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